ROMA – La pandemia rischia di riportare la lancetta dell’orologio della cardiologia indietro di decenni: a causa dell’ultima emergenza Covid-19, che ha costretto a convertire molti posti letto cardiologici per trattare i pazienti contagiati, in molti ospedali l’assistenza cardiologica è stata ridotta all’osso e la mortalità per infarto e ictus rischia ora di tornare ai livelli di 20 anni fa. Lo denuncia un’indagine condotta dalla Società Italiana di Cardiologia in 45 ospedali equamente distribuiti sul territorio nazionale: la survey ha dimostrato che il 68% degli ospedali ha ridotto i ricoveri elettivi dei pazienti cardiopatici, il 50% ha diminuito l’offerta degli esami diagnostici e il 45% ha dovuto tagliare le visite ambulatoriali. Il 22% ha dovuto addirittura ridurre i posti letto in terapia intensiva cardiologica (UTIC), mentre il 18% degli ospedali ha ridotto in personale medico in UTIC e il 13% quello infermieristico. È però necessaria un’inversione di rotta che garantisca un ripristino e magari un potenziamento dell’assistenza cardiologica, anche perché in futuro i pazienti cardiologici potrebbero aumentare proprio per colpa del Covid: uno studio recentemente pubblicato su Nature Medicine dimostra infatti che dopo la guarigione dall’infezione i pazienti hanno un maggior rischio di malattie cardiovascolari come scompenso cardiaco, ictus, infarto, aritmie e mio-pericarditi. “Sono dati molto preoccupanti, che testimoniano una situazione di evidente emergenza per i pazienti italiani con malattie cardiovascolari”, afferma Ciro Indolfi, Presidente della Società Italiana di Cardiologia e Vice-Presidente della Confederazione Cardiologi, Oncologi ed Ematologi (FOCE) e Direttore Unità Complessa di cardiologia e Utic, Università Magna Graecia di Catanzaro.
Per l’indagine italiana sono state monitorate in due diverse fasi, a novembre/dicembre 2021 e poi a gennaio 2022, le attività in ambito cardiologico di 45 ospedali afferenti alla SIC. Questi risultati indicano un grave ridimensionamento dell’assistenza cardiologica in molte strutture sanitarie, un ‘effetto collaterale’ indiretto della pandemia che rischia di richiedere un alto prezzo da pagare. “La variante omicron e il vaccino hanno ridotto significativamente le forme gravi di Covid 19 e la necessità di finire in rianimazione, invece le conseguenze dirette e indirette della pandemia sulle malattie cardiovascolari sono ancora purtroppo ampiamente sottovalutate – sottolinea Indolfi – La necessità di reclutamento di posti disponibili per pazienti Covid 19, spesso usati per garantire la mancata progressione in zone arancione o rossa, la mancata programmazione nei mesi precedenti e le decisioni emergenziali hanno portato a una riorganizzazione sanitaria che ha penalizzato molte cardiologie in tutto il Paese: sono diminuite le angioplastiche coronariche, l’impianto percutaneo delle valvole cardiache, le procedure per l’impianto di pacemaker e defibrillatori, le ablazioni; sono stati ridotti gli elettrocardiogrammi, le ecocardiografie e i test da sforzo. Tutto questo è allarmante: i pazienti cardiopatici non hanno trovato più un’assistenza adeguata alla prevenzione e al trattamento delle loro patologie”. La preoccupazione cresce anche perché molti dati mostrano che dopo la pandemia è possibile un’impennata dei pazienti cardiologici: “Uno studio pubblicato su Nature Medicine e condotto su più di 150.000 pazienti guariti dal Covid-19 confrontati con oltre 5 milioni di controlli sani ha dimostrato che dopo il contagio il rischio di patologie cardiovascolari aumenta significativamente, anche in chi ha meno di 65 anni senza fattori di rischio come obesità o diabete – continua Indolfi – Ad esempio, i pazienti guariti dal Covid avevano il 52% di probabilità in più di ictus: ogni 1.000 persone studiate, quindi, si sono registrate circa 4 vittime di ictus in più fra chi era stato infettato dal virus rispetto al gruppo di controllo. Il pericolo di scompenso cardiaco è aumentato del 72%, ovvero circa 12 persone in più ogni 1.000 guariti dal Covid”.
Tutto questo apre la strada a un futuro in cui si potrebbe ritornare al passato, a quando cioè un numero molto maggiore di persone moriva per infarto, anche perché accanto a un ridimensionamento dell’assistenza la stessa pandemia ha peggiorato la salute cardiovascolare degli italiani. “Oggi si registrano 1 milione di fumatori in più rispetto al passato, il 44% degli italiani è aumentato di peso, il consumo eccessivo di alcol è cresciuto del 23,6% fra i maschi e del 9,7% fra le donne – afferma il Prof. Pasquale Perrone Filardi, Presidente eletto della SIC e Ordinario di Cardiologia, Università Federico II di Napoli – Questi dati sono molto preoccupanti e fanno presagire un aumento delle patologie cardiovascolari nei prossimi anni, a cui si aggiunge l’aumento delle malattie ischemiche del cuore: l’Italia è stata la prima nazione occidentale a essere colpita dalla pandemia e la SIC è stata la prima Società scientifica, in uno studio pubblicato sull’European Heart Journal, a intercettare tale fenomeno già nella prima fase della pandemia, quando è stato registrato un aumento di tre volte della mortalità per infarto miocardico”.
“In Italia le malattie cardiovascolari rappresentano il 44% di tutti i decessi, la cardiopatia ischemica è la principale causa di morte (28%) e 4,4 italiani ogni mille vanno incontro a disabilità cardiovascolare – aggiunge il Prof Gianfranco Sinagra, Vice-Presidente della SIC e Ordinario di Cardiologia Università di Trieste – Nonostante il peso delle malattie cardiovascolari, nel 2016 l’aspettativa di vita alla nascita in Italia era di 82,8 anni, tra le più lunghe al mondo; dall’inizio della pandemia l’aspettativa di vita post-pandemica è diminuita a 82 anni, con un ulteriore decremento di 1,2 anni nel 2020 rispetto al 2019. A 65 anni, l’aspettativa scende a 19,9 anni (18,2 anni per gli uomini, 21,6 anni per le donne): serve perciò una campagna di prevenzione efficace e soprattutto occorre riorganizzare le strategie terapeutiche nei pazienti cardiopatici, senza tagliare sulla loro assistenza come invece sta accadendo”.
In assenza di un cambio di rotta agli effetti acuti dell’infezione da SARS-CoV-2 sul cuore, bisognerà aggiungere quelli indiretti dovuti alla mancata prevenzione e trattamento di molte patologie cardiologiche e a quelli provocati a distanza dall’infezione. “I dati emersi richiamano alla necessità di proteggere i pazienti cardiopatici, se non vogliamo perdere il vantaggio straordinario ottenuto in cardiologia in questi ultime tre decadi: l’angioplastica per l’infarto ha ridotto la mortalità dal 30% a circa il 4%, ma se i ricoveri e gli interventi continueranno a ridursi un sempre minor numero di vittime di attacco cardiaco vi potrà accedere. I nuovi dati indicano inoltre che i pazienti guariti dal Covid devono essere ricevere un’attenzione maggiore per l’aumentata probabilità di essere colpiti da patologie cardiovascolari: siamo perciò in un momento in cui a una minore prevenzione e terapia delle malattie cardiovascolari si associa un maggiore rischio proprio di queste malattie nei pazienti guariti dal Covid. Tutto ciò dovrà essere seriamente considerato nelle prossime strategie di riorganizzazione del Sistema Sanitario Nazionale”, conclude Indolfi.