di Leonardo Alfatti Appetiti
Silvio Mignano, nato a Fondi il 23 ottobre 1965, è un diplomatico italiano oltre che scrittore, poeta ed illustratore. Già ambasciatore in Bolivia e in Venezuela, adesso ricopre l’incarico a Berna, Svizzera. Le numerose esperienze tra America Latina, Europa e Africa hanno influenzato molte delle sue opere tra cui Le porte dell’Inferno (Fazi, 2001), Pilar degli invisibili (Robin Edizioni, 2015) e Il danzatore inetto (DeriveApprodi, 2018).
Trenta anni fa Lei entrava nel servizio diplomatico italiano, sogno ancora oggi di molti giovani. Come si entra in questo mondo?
Sono arrivato alla carriera diplomatica quasi per caso. Già al liceo avevo un interesse molto forte riguardo gli studi umanistici, e l’idea iniziale era quindi di studiare Lettere. Tuttavia, per evitare difficoltà nel mondo del lavoro, alla fine optai per gli studi giuridici e non me ne sono pentito. Non avevo la classica vocazione forense e dopo aver scritto la tesi di laurea in Diritto Internazionale iniziò a maturare in me l’ambizione di entrare nel servizio diplomatico. Ai tempi ero un giovane di un paesino di provincia, Gaeta, e senza alcun aiuto da parte di “potenti”. La diplomazia mi appariva allora come un mondo lontano ed era grande il timore di non farcela. Il concorso è stato molto duro ma il mio impegno nello studio mi ha ripagato. Spesso si parla dell’inefficienza della Pubblica Amministrazione e dei favoritismi al suo interno. Io sono il testimone che nella Diplomazia la meritocrazia è alla base e che chiunque, costruendosi da solo, può farne parte.
Nell’immaginario collettivo il lavoro di ambasciatore è prestigioso e ricco di onori, qual è l’altro lato della medaglia?
Il lavoro diplomatico diventa ogni giorno più tecnico: richiede sempre maggiori conoscenze soprattutto in ambito economico e di diritto internazionale. Ormai da decenni non basta più il “savoir-faire” e l’eleganza. Questo porta a un lavoro spesso faticoso e dietro le quinte dimenticandosi l’idea del diplomatico che va solo a ricevimenti, che incontra solo potenti e che fa solo cose appariscenti. È un lavoro che non lascia mai tranquilli; un lavoro di grandi responsabilità delle quali bisogna poi rispondere perché si gestiscono diritti e interessi di persone. C’è anche l’aspetto della pericolosità, in Venezuela serviva la scorta armata 24 ore su 24. E la figura stessa del diplomatico può essere presa di mira, come è tristemente accaduto all’ambasciatore Attanasio, di cui ero molto amico.
Quali sono allora i valori e le qualità umane necessari per svolgere questo mestiere?
Per quanto possa essere retorico, sicuramente un forte senso dello Stato è fondamentale: bisogna averlo. Anche avere una certa curiosità è importante, aiuta nell’affrontare gli argomenti più impegnativi senza demordere. La flessibilità, poi, è cruciale in questo lavoro. Bisogna essere capaci di passare da un ambito all’altro, adattarsi a lingue, società e religioni diverse, sapersi orientare di volta in volta in base alla missione che si deve compiere. Senza uno spirito molto flessibile tutto questo diventa impossibile.
Lei è anche autore di numerosi romanzi e poesie, continuando la tradizione letteraria della diplomazia italiana. Come riesce a combinare l’impegno diplomatico con l’attività letteraria?
Dormo molto poco (ride) e cerco di essere il più efficiente possibile spendendo il tempo nel modo migliore. Inoltre, il lavoro diplomatico, portando sempre a vivere nuove esperienze ed ad incontrare realtà diverse, apre la mente e favorisce la coltivazione di interessi e passioni, non le ostacola. È importante per me esprimermi anche fuori dal lavoro. Ad ogni modo, sono giudicato dai risultati che ottengo sul campo.
Lei è stato 4 anni, dal 2015 al 2019, ambasciatore in Venezuela. Rispetto ad altri paesi dell’America Latina, quest’ultimo non è molto noto in Italia per la sua cultura. È un errore nostro di prospettiva?
Sì, ci sono un po’ di pregiudizi nel bene e nel male. Di solito si tende a parlare di cultura cubana o argentina, mentre nella nostra immaginazione ci sono alcuni Paesi che vivono di altro. Il Venezuela è uno di questi, terra del petrolio e delle miss ma non di una grande profondità di pensiero. Io invece ho scoperto che è esattamente il contrario. È una terra più di poeti che di narratori, molto apprezzati in America Latina. C’è una cultura musicale ad esempio molto potente, molte delle forme musicali che noi associamo all’America Latina hanno in Venezuela uno sviluppo incredibile. C’è un’architettura di una bellezza e di una ricchezza anche tecnica veramente straordinaria, basti pensare alla città universitaria di Caracas, patrimonio dell’UNESCO, o al ponte Morandi di 9 chilometri sul mare che collega da una parte all’altra il golfo di Maracaibo. Anche dal punto artistico il Venezuela ha la sua voce in capitolo, ad esempio il movimento cinetico dell’arte astratta è nato in Venezuela. Io credo che, più del petrolio, questa sia la vera forza del Venezuela: l’eccezionale cultura, che spero possa un giorno riporta il Paese in alto.
Il Venezuela è stato inoltre terra d’approdo di molti italiani, quali sono le particolarità della comunità italiana lì rispetto a quelle negli altri paesi del Sud America?
La comunità italiana in Venezuela è la terza più numerosa del continente, dopo Brasile e Argentina, ma è frutto di un’immigrazione molto più recente. Mentre nel resto del Sud America le migrazioni dall’Italia sono avvenute addirittura a fine ‘800 e nella prima metà del ‘900, in Venezuela gli italiani sono arrivati in seguito alla crisi del secondo dopoguerra. Da questo punto di vista è stata un’immigrazione più simile a quella in Europa. Adesso mi trovo in Svizzera e noto alcuni punti in comune tra la comunità italiana qui e quella in Venezuela. A differenza degli italiani negli altri paesi americani, gli italiani del Venezuela parlano in gran parte ancora l’italiano e non superano la terza generazione. Questo porta da un lato ad avere una grande integrazione nella società venezuelana e dall’altro a mantenersi molto italiani.
Dove è più riconoscibile l’impronta degli italiani nella società venezuelana?
Sicuramente nell’ambito gastronomico, che può sembrare un po’ superficiale ma non lo è mai. La profondità dell’influenza italiana in questo campo è evidente ad esempio dal fatto che il Venezuela, prima della crisi economica, era il secondo Paese al mondo per consumo pro capite di pasta. La cucina venezuelana è più italiana di quella di un qualunque altro Stato americano. Poi nel linguaggio c’è molta commistione con l’italiano e molte parole italiane sono diventate parte integrante dello spagnolo venezuelano. Quello che colpisce è soprattutto la piccola architettura, ci sono alcuni quartieri di Caracas che sembrano periferie del Nord Italia. Quel tipo di architettura che è stata ideata da geometri e tecnici, non grandi architetti, che a volte non firmavano loro i disegni perché non avevano il titolo di studio ma di fatto tiravano su le case.
Ha raccontato la sua esperienza diplomatica e umana in Bolivia ne “El bolígrafo boliviano”, possiamo confidare in un diario anche sul soggiorno venezuelano?
Riesco a scrivere di un posto solo quando me ne distacco un po’. Mi rendo conto che la nostalgia produce in me un certo desiderio di trasformarla in letteratura. Sono sicuro che scriverò sul Venezuela ma non so ancora quando. A differenza del Bolígrafo, che è una biografia frammentaria, credo che il libro sul Venezuela sarà un romanzo. L’esperienza lì è stata così forte, intensa, drammatica che piuttosto che affrontarla in prima persona preferirò affidarmi a un personaggio o più personaggi. Ho bisogno di più distacco.