La strada che porta alla piazza è la stessa di quando ero bambina. Le case mantengono la medesima
espressione. I passi, i sospiri, gli sguardi delle persone, hanno un loro linguaggio fatto di lentezza e
riflessione, la sola che si può trovare in un piccolo centro, in una regione di natura e tradizione. Quelli come
me cresciuti in provincia, hanno un senso dell’orientamento atipico nei confronti della vita. Non nuotano in
un mare di possibilità e non solcano strade randagie di avventure: sono sempre pronti a correre ai ripari, al
rifugio sicuro ed accogliente. Non siamo né carne e né pesce. Siamo pescecani in balia di correnti che in
questo 2020 sono ancor più insidiose. Siamo i ragazzi della generazione Z, l’ultima lettera dell’alfabeto.
Uno zoo di adolescenti nostalgici, giovani madri, studenti universitari, precari, disoccupati e continuate voi
l’elenco. Un esercito silenzioso che a fatica riesce a trovare il proprio posto in un presente ormai segnato da
un inquilino aggressivo insinuatosi lentamente nel nostro quotidiano. Se dieci anni fa qualcuno ci avesse
chiesto di immaginare un futuro in vista dei dieci anni a venire, un profluvio di sogni sarebbe sgorgato dalle
nostre labbra. Romanticismo? Nostalgia? No solo un bagliore di verità. Ricordo così limpidi i desideri
sussurrati a mezza bocca tra amici, seduti sulle scale, all’uscita di una sala giochi. Ricordo quell’istantanea
fotografia di rapporti umani non filtrati dalla luce riflessa dei social network, dove tutto era così
incandescente e le emozioni cavalcavano praterie di cui non sapremo mai il nome. La nostalgia è qualcosa
che non si può avere passati i venti, la vita comincia proprio lì. Questo è lo slogan di chi la sa lunga, di chi ha
già vissuto e di chi ha già patito. C’è una sola differenza in tutto questo avvicendarsi di parole: il progresso.
Il progresso ci ha portati così lontani, talmente tanto lontani che non riusciamo più a tornare a noi stessi.
Abbiamo perso la strada del riconoscerci tra la gente, della spontaneità frutto del momento. Non c’erano
approvazioni istantanee o cuoricini a renderci qualcuno. C’era il presente, un presente che diventa
nostalgia quando anche un male venuto da lontano ci tiene stretti in una morsa angosciante. È un urlo
silenzioso quello dei giovani, un urlo strozzato in gola. Non siamo vittime di un destino avverso, non siamo
noi i liberatori di una guerra tra popoli, non siamo noi in Occidente a non avere diritto di parola, non siamo
noi in Italia sotto il fuoco di bombardamenti di un’altra bandiera. No. Siamo solo giovani e sfaticati,
nullatenenti privi di qualsiasi valore, lattanti reduci da un cordone ombelicale mai reciso. Si l’ho sentito dire
e molti come me.
Siamo il popolo di un domani che non vediamo e, ora più che mai, le aspettative che ognuno di noi leggeva
nel proprio orizzonte cominciano ad essere sbiadite, sempre più lontane. Viviamo questa società, che ci ha
cullati sin da subito, come la nostra condanna. Soffriamo i cosiddetti “mali del secolo” tra depressioni,
attacchi di panico, ansie croniche … paure.
Siamo i ragazzi cresciuti in un limbo di incertezze. Questo “noi”
denota solo un senso di appartenenza, un sentire captato in esistenze altrui. In tutto ciò, un male senza
volto è venuto a farci visita e a tagliuzzare ancor di più quel filo che ci teneva legati alla nostra realtà.
Adesso il presente, come dicevo, acquista quella nostalgia che non ha motivazione, perché la motivazione
stessa è il tempo che ognuno ha e che ognuno vive. Ci dicono che passerà, che anche il male se ne andrà,
che più su della nebbia il cielo è sereno.
Io continuo a guardare la piazza e a vedere questa strada sempre uguale. Non è un gioco della mente, forse
anche oltre il tempo stesso, le cose non cambiano. Acquistano un valore diverso, il padrone di casa magari
decide di rifare il tetto. Ma le cose non cambiano, i tempi andati ci mancano … le persone dimenticano.