AVEZZANO – Ieri è stato il giorno in cui si è commemorato l’olocausto. Non riteniamo debba dissolversi così la memoria. La eco della immane tragedia vogliamo ricordarla ancora oggi con un testo estratto del libro “La banalità del male” della grande filosofa tedesca Hannah Arendt, nel 1961 corrispondente a Gerusalemme nel processo Eichmann per la testata giornalistica del The New Yorker. I fatti qui narrati sono testimonianze di cui Arendt parla nel capitolo Sesto e sono riferiti a tutto il materiale registrato attraverso nastri magnetici nel corso dell’istruttoria.
Il 22 giugno 1941 Hitler attaccò l’Unione Sovietica, e all’incirca un paio di mesi dopo Eichmann fu convocato da Heydrich a Berlino. Il 31 luglio Heydrich aveva ricevuto dal Reichsmarschall Hermann Goring, comandante in capo dell’aviazione, Primo Ministro di Prussia, plenipotenziario del piano quadriennale nonché sostituto di Hitler nella gerarchia statale, una lettera in cui lo si invitava a preparare “la soluzione finale” […] Nel colloquio che ebbe con Eichmann , Heydrich cominciò con “un discorsetto sull’emigrazione” e poi disse: “il Fuhrer ha ordinato lo sterminio fisico degli ebrei” […] Tutta la corrispondenza relativa alla questione doveva rispettare rigorosamente un determinato “gergo” e se si eccettuano i rapporti degli Einsatzgruppen, è raro trovare documenti in cui figurino parole crude come “sterminio” “liquidazione” “uccisione”. Invece di dire uccisione si dovevano usare termini come “soluzione finale ” “evacuazione” ( Aussiedlung) e “trattamento speciale” (Sonderbehandlung): invece di dire deportazione bisognava usare parole come “trasferimento” o “lavoro in oriente” (Arbeitseinsatz im Osten) oppure se si parlava di persone dirette a Theresienstad si doveva dire “cambiamento di residenza” in modo da dare l’impressione che si trattasse di provvedimenti temporanei. Qualunque sia la ragione per cui quel gergo venne inventato, esso fu di enorme utilità per mantenere l’ordine e l’equilibrio negli innumerevoli servizi la cui collaborazione era essenziale.
[…] Quando Eichmann giunse a Lublino il Brigadefuhrer Globocnik lo accolse con gran cortesia e deferenza. Lo accompagnò in un bosco dove c’era una strada alla cui destra sorgeva una casa qualunque, dove vivevano degli operai. Un capitano della Polizia dell’ordine uscì loro incontro per salutarli e li condusse a un gruppo di piccole baracche di legno, e qui con voce volgare, maleducata e dura cominciò a spiegare “come avesse disposto tutto perbene, perché si sarebbe messo in funzione un motore di un sottomarino russo e il gas sarebbe entrato nell’edificio asfissiando gli ebrei”. Eppure poteva considerarsi fortunato, poiché aveva visto solamente i preparativi di quelle che sarebbero state le camere a gas al monossido di carbonio di Treblinka. Poco tempo dopo, nell’autunno dello stesso anno, il suo superiore lo mandò a ispezionare un centro di sterminio in quelle regioni occidentali della Polonia che erano state incorporate nel Reich formando il cosiddetto Warthegau. Il campo si trovava a Kulm, e qui, nel 1944, furono poi uccisi oltre trecentomila ebrei provenienti da ogni parte d’Europa, precedentemente concentrati nel ghetto di Lòdz. Qui si lavorava già a pieno ritmo, ma il metodo era diverso: invece di camere si usavano camion a gas. Ecco che cosa vide Eichmann: gli ebrei erano raggruppati in una grande stanza; ricevettero l’ordine di spogliarsi; poi arrivò un camion che si fermò proprio dinanzi all’ingresso della stanza e gli ebrei nudi vi furono fatti entrare. Gli sportelli si richiusero e il camion partì. “Non so dire quanti ne fossero, cercavo di non guardare, non potevo; ne avevo abbastanza. Seguii il camion, e allora vidi la cosa più orribile che avessi mai visto in vita mia. Il camion si fermò davanti a una fossa, gli sportelli si aprirono e i corpi furono gettati giù; sembravano ancora vivi , tanto le membra erano ancora flessibili. Furono scaraventati nella fossa, e mi sembra ancora di vedere un civile che estraeva i denti con le tenaglie. “
Ma di lì a poco vide qualcosa di ancor più spaventoso. Fu quando Muller lo mandò a Minsk, in Bielorussia, dicendogli: “A Minsk uccidono gli ebrei passandoli per le armi. Voglio che lei mi faccia un rapporto su come procedono”. E così Eichmann andò e in un primo momento parve che avesse avuto fortuna perché quando giunse “la faccenda era quasi finita” cosa che lo consolò molto. “C’erano soltanto alcuni giovani che miravano alle teste dei morti, in una gran fossa”. Però vide ” una donna con le braccia dietro la schiena e allora mi prese una debolezza alle ginocchia e me ne andai”. Nel frattempo a Lublino Globocnik aveva ultimato i preparativi. E questa volta Eichmann vide una delle cose più orribili. Il posto dove un tempo sorgevano le baracche era ora irriconoscibile. Guidato come la volta precedente dall’uomo dalla voce volgare, arrivò a una stazione ferroviaria su cui era scritto “Treblinka”, in tutto identica a una comune stazione tedesca. “Mi tenni più indietro che potei, non mi avvicinai per vedere tutto. Tuttavia vidi come una colonna di ebrei nudi, messi in fila in una grande stanza per essere gasati. Qui vennero uccisi, come mi dissero, con una roba chiamata acido cianidrico”.
Il fatto è che Heichamm non vide molto. E’ vero, egli visitò più volte Auschwitz, il più grande e famoso campo della morte, ma Auschwitz che si trovava nell’Alta Slesia e che si estendeva per una superficie di quasi trenta chilometri quadrati, non era soltanto una campo di sterminio: era una gigantesca industria e contava fino a centomila ospiti, dove tutti i tipi di prigionieri erano rappresentati, anche i non ebrei e i forzati non destinati alla morte per gas.