Lavorare duramente, ricevendo poche o nessuna gratificazione, fa male al cuore, letteralmente. Lo stress in ufficio, se non ricompensato adeguatamente, può avere gli stessi effetti negativi dell’obesità sulla salute cardiaca. Può cioè raddoppiare (49%) il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. A puntare i riflettori su un fattore di rischio spesso trascurato per il cuore è la Società Italiana di Cardiologia Interventistica (GISE), in occasione del 44° congresso nazionale in corso a Milano. La società scientifica rilancia uno studio condotto dall’Università Laval in Quebec, Canada, recentemente pubblicato sulla rivista Circulation: Cardiovascular Quality and Outcomes, aggiungendo che in Italia il problema riguarda anche la categoria dei medici, soprattutto quelli che devono prestare servizi di reperibilità e urgenza, proprio come i cardiologi interventisti. Nel nuovo studio i ricercatori hanno coinvolto quasi 6.500 colletti bianchi (3.118 uomini e 3.347 donne) con un’età media di 45 anni, che non avevano una storia pregressa di malattie cardiache. I soggetti sono stati seguiti per quasi 20 anni, precisamente dal 2000 al 2018, e nello stesso periodo sono stati sottoposti a una serie di domande sul loro lavoro e sulla loro salute. In questo modo gli studiosi sono riusciti a misurare la tensione lavorativa e lo squilibrio tra fatica e ricompensa. Dai risultati è emerso che gli uomini che riferivano di aver sperimentato stress lavorativo o squilibrio tra sforzo e ricompensa avevano un rischio maggiore del 49% di malattie cardiache rispetto a coloro che non hanno segnalato le stesse condizioni lavorative.
“Sapevano da tempo che un lavoro stressante e una scarsa gratificazione possono avere un impatto negativo sulla salute del cuore, ma solo come fattori di rischio singoli – spiega Giovanni Esposito, presidente GISE e direttore della UOC di Cardiologia, Emodinamica e UTIC dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli -. Il nuovo studio, invece, ha sottolineato per la prima volta l’enorme impatto della combinazione di questi due fattori, cioè lavoro duro e ricompensa bassa. I risultati evidenziano quindi l’urgente necessità di affrontare in modo proattivo le condizioni di lavoro stressanti, per creare ambienti più sani a vantaggio dei dipendenti e dei datori di lavoro”.
Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte nel mondo, con circa 17 milioni di decessi ogni anno. In Italia sono responsabili del 35% di tutte le morti, superando i 230mila casi all’anno. “Evidenze scientifiche suggeriscono che ci siano due modi principali in cui lo stress può danneggiare il cuore – aggiunge Francesco Saia, presidente eletto GISE e cardiologo interventista all’IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna, Policlinico Sant’Orsola -. Il primo coinvolge il sistema simpatico e riguarda il controllo della pressione sanguigna e del restringimento dei vasi sanguigni. L’altro modo include l’attivazione del midollo osseo e il rilascio di cellule infiammatorie, che a loro volta portano all’infiammazione aterosclerotica e all’insorgenza di placche e trombi. Ma a fare male non è un singolo evento stressante, ma periodi prolungati di stress in combinazione con altri fattori di rischio”.
In pratica, la pericolosa combinazione di “lavoro stressante e poca gratificazione” sembra avere sul cuore un impatto simile a quello dell’obesità. La salute del cuore delle donne, invece, sembra non essere influenzata da questi fattori, anche se i ricercatori canadesi ritengono che siano necessari ulteriori ricerche.
“Lo squilibrio tra impegno e ricompensa si verifica quando i dipendenti investono molto nel loro lavoro, ma ottengono in cambio ricompense, come stipendi, riconoscimenti o sicurezza del lavoro, insufficienti o non eque rispetto allo sforzo – precisa Esposito -. Considerando la notevole quantità di tempo che le persone trascorrono al lavoro, comprendere la relazione tra fattori di stress lavorativo e salute cardiovascolare è fondamentale per la salute pubblica e il benessere della forza lavoro”. E conclude: “L’eccesso di lavoro è qualcosa che molti medici conoscono bene, compresi noi cardiologi interventisti. Turni infiniti e corse in ospedale per interventi d’urgenza sono all’ordine del giorno. Tutto questo a fronte di una scarsa remunerazione, insufficiente persino a coprire le spese vive per recarsi all’ospedale. Ed è paradossale che siano proprio i ‘medici del cuore’ a mettere a rischio il proprio, lavorando con abnegazione nonostante i pochi riconoscimenti”.