Davanti all’ennesimo caso di cronaca, di cui possiamo leggere i dettagli delle conversazioni, i pensieri delle persone coinvolte, l’entità della violenza, è ancora più evidente quanto le dinamiche della cultura dello stupro siano presenti, e quanto sia necessario un profondo cambiamento culturale che parta dall’educazione per delegittimare queste dinamiche di prevaricazione basate sul genere.
Anche il modo, poi, in cui si parla delle vittime contribuisce ad una determinata rappresentazione della violenza di genere.
Gli stupratori non sono animali, sono persone! Non seguono le dinamiche di un branco in preda ad istinti incontrollabili, ma quelle che spesso si creano all’interno di gruppi maschili, in cui diventa obbligatorio rimarcare la propria virilità attraverso l’oggettificazione delle donne e la convinzione di possederle e controllarle.
Deumanizzando chi esercita violenza di genere contribuiamo a renderlo un fenomeno relegato a mele marce e persone fuori controllo, in parte deresponsabilizzandole quando in realtà è frutto di una cultura in cui siamo immersi a tutti i livelli e che tutti possiamo scegliere di confermare o combattere nella nostra quotidianità , attraverso il modo in cui parliamo e ci rapportiamo con le persone intorno a noi.
La violenza di genere viene spesso raccontata come frutto di un istinto animale, di un raptus violento di una dinamica legata all’amore o al desiderio sessuale, quando invece dovrebbe essere raccontata per quello che è:
un esercizio di potere nei confronti della donna in quanto tale, che mira a rimetterla “al suo posto” esasperando il tappo sociale di prevaricazione.
Le parole con cui si parla di violenza di genere non sono solo lo strumento per raccontare un fatto ma influenzano la nostra percezione del fenomeno nel suo complesso.