di Leonardo Alfatti Appetiti
Politica e cultura? Un rapporto da sempre difficile. Il nostro paese, numeri alla mano, non brilla per la consistenza degli investimenti in un settore – che è molto ampio e comprende sia i lavori culturali più tradizionali (come ad esempio le guide nei musei) che i segmenti di produzione media e giornalistici – con il quale, secondo un radicato pregiudizio, “non si mangia”. L’Italia, infatti, sulla base di dati Eurostat elaborati da Openpolis, si colloca al quartultimo posto con lo 0,3% di Pil speso per il segmento culturale. Peggio di noi, fermi allo 0,2%, si trovano Irlanda, Grecia e Cipro. Per quel che riguarda, invece, i servizi di broadcast e i media, la spesa nei singoli paesi europei oscilla tra 0,1% e 0,5%.
Lo stato europeo che spende di più per i servizi culturali in termini di percentuale di Pil, sorprendentemente, è la tanto bistrattata (dall’Europa) Ungheria (1,3%). Seguono le Repubbliche Baltiche: Estonia (1%), Lettonia (0,9%) e Lituania (0,9%).
No, la cultura non è un bene di lusso o effimero. Chi produce contenuti culturali è centrale nel mantenimento di un consapevole dibattito democratico. L’accesso alla cultura dovrebbe essere un diritto da rivendicare con più forza. Anche in questo periodo, in cui i cittadini sono costretti, prima dalla pandemia e ora dal “caro bollette” a stringere la cinta. Quando c’è da contenere alcune spese, tra le prime a essere sacrificate ci sono quelle culturali. Dal punto di vista dei consumi delle famiglie, la cultura ha subito un vero e proprio azzeramento. Tra il 2019 e il 2020, l’Unione europea è stata caratterizzata da una diminuzione delle spese pari al 16,7% rispetto all’anno precedente. Una diminuzione presente in Francia (-14,6%), in Germania (-11,6%) e che si è verificata anche nel nostro paese, con un preoccupante -22,4% (il calo delle spese per la cultura delle famiglie italiane nel 2020 rispetto al 2019).
Un dato tanto più preoccupante se si considera il numero dei lavoratori nell’ambito culturale. Il riferimento è a chi esercita una professione a carattere prevalentemente culturale e più in generale a coloro che lavorano nel settore culturale, come definito dalle classificazioni Nace e Isco. Per quanto eterogeneo e fragile, il settore dà lavoro a numerose persone. Nel 2020, questo ambito conta oltre 7,2 milioni di lavoratori. Sono tre i paesi in cui i lavoratori culturali superano il 5% del totale: Estonia (5,2%), Slovenia (5,2%) e Finlandia (5,1%). L’Italia si attesta al 3,5%, un valore in linea con la media europea. I tre stati in cui si registrano i valori minori sono Cipro (3,2%), Bulgaria (2,9%) e Romania (1,4%).
Anche nel dettaglio del contesto italiano lo scenario è piuttosto eterogeneo. Il settore ha il maggior numero di occupati nelle aree del centro (4,18%) e del nord (3,42%) e una minore presenza nelle isole (2,3%) e nel sud (2,18%).
Non è retorico affermare che il livello di civiltà di un paese dipende anche dalla quantità e qualità dell’offerta culturale accessibile a tutti.