L’intossicazione alimentare nel napoletano, dove almeno dieci persone sono state ricoverate con allucinazioni e sintomi da avvelenamento, pare sia dipeso dall’ingestione della mandragora. Tutti gli intossicati avrebbero mangiato spinaci acquistati in diversi negozi di ortofrutta che contenevano anche la mandragora le cui foglie sono molto simili a quelle degli spinaci, della bietola e del cavolo nero.
“La Mandragora è una piante appartenente alla stessa famiglia delle patate, del pomodoro, del peperoni ma rispetto a questi ortaggi è una pianta spontanea diffusa nell’Africa del Nord, in Medio Oriente ed in Europa, cresce nei terreni incolti e ai bordi delle strade e non si sviluppa nei campi coltivati il cui terreno viene periodicamente lavorato” afferma Fabrizio Lobene Presidente di Confagricoltura L’Aquila.
In Italia è diffusa prevalentemente nelle Regioni del Sud mentre in Abruzzo e nel Fucino risulta non più ritrovata.
Nell’altopiano del Fucino si pratica un’agricoltura altamente specializzata, i produttori prestano grande attenzione alla gestione dei loro terreni per evitare lo sviluppo di infestanti indesiderate. Le caratteristiche botaniche della pianta unitamente alle peculiarità pedoclimatiche e delle pratiche agricole applicate nel Fucino, rendono l’areale non adatto alla crescita e allo sviluppo della Mandragora.
“E’ azzardato e fuorviante affermare che i fenomeni di intossicazione dopo il consumo di spinaci contaminati da mandragora, siano da attribuire alle aziende produttrici di spinaci che operano nella nostra piana. I nostri agronomi, che seguono i cicli di coltivazione, sono concordi nell’affermare che questa pianta non sia diffusa nel nostro areale. Tuttavia, per maggiore tranquillità di tutti abbiamo contattato il Prof. Fabio Stagnari coordinatore del corso di Laurea “Intensificazione sostenibile delle produzioni ortofrutticole di qualità” istituito dall’Università di Teramo nella sede distaccata di Avezzano, per verificare l’effettiva assenza di questa pianta nei nostri territori. Il Prof Stagnari si è impegnato a coinvolgere l’istituto di botanica dell’Università dell’Aquila per acquisire informazioni sul problema sollevato.” Conclude Lobene