Tra neanche due mesi si tornerà al voto e si respira un ampio ventaglio di sentimenti: gioia e liberazione, per alcuni, timore e incertezza, per altri. Di sicuro, prima delle urne, abbiamo un partito vincitore: il PdD (Partito dei Disinteressati), che se tutto va bene si attesterà su percentuali prossime al 30%.
È la rappresentazione plastica di come questa legge elettorale sia una mezza ciofeca, ma in Parlamento, poiché si siederanno in ogni caso, questo pare non interessare. Neanche a chi doveva ribaltare il Parlamento, ma questa è un’altra storia.
I giochi sono appena iniziati e, a causa delle ristrettezze temporali, sarà molto complicato per chi ha temporeggiato fino all’altrieri trovare una quadra: il pensiero va ai tanti micropartitini del cosiddetto “centro” (perché dire “area politica in cui si posiziona chiunque non sia né carne né pesce” pareva brutto) che avevano fissato i Congressi organizzativi nei primi giorni di settembre e, quindi, non avranno tempo per illustrare i loro magnifici programmi né strutturarsi sul territorio, alla ricerca di quello 0,2% che permette alla politica italiana di configurarsi come uno spettacolare Circo Barnum, con più sigle politiche che elettori. Per loro, una prece.
In questo campo di battaglia o di patate, che dir si voglia, c’è chi ha pensato di distinguersi dai competitor: il Partito Democratico, che in una splendida riedizione della “Gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, vuol correre senza un programma condiviso, limitandosi ad avere tanti alleati. Tanti alla linea di partenza. Molti meno pian piano che ci si avvicina a settembre, visto che col passare dei minuti cresce il malcontento dalle parti di Via Sant’Andrea delle Fratte, civico 16.
Nel campo largo prefigurato da Enrico Letta, che va dall’estrema sinistra al fritto misto di Calenda, sono gli accordi dell’ultim’ora tra i due Segretari ad aver risvegliato il mostro dormiente, che non si sarebbe mai ridestato qualora il do ut des alla base dell’alleanza tra PD e Azione/+Europa avesse riguardato temi e non poltrone: 70 a me, 30 a te, tutti contenti. Se non fosse che, dopo la spartizione dei seggi bisogna anche conquistarli. Ma quella è, anche qui, un’altra storia.
L’Accordone, oltre ad aver massacrato la credibilità politica di Calenda (contrario fino a pochi minuti prima all’adesione ad un cartello elettorale destinato alla sconfitta, privo di programmi e foriero di futura ingovernabilità del Paese, parole sue), ha fatto insorgere Bonelli, Fratoianni e Di Maio, vittime negli ultimi giorni delle sprangate del Carletto nazionale.
“Letta ha concesso troppo a Calenda, i nostri programmi sono incompatibili con la sua presenza”. E vorrei vedere: da una parte lui vorrebbe reintrodurre il nucleare, mentre i Verdi di Bonelli sono ormai diventati il PdNaQC (Partito del No a Qualsiasi Cosa); da una parte lui vorrebbe politiche liberiste di mercato, mentre Sinistra Italiana di Fratoianni vedrebbe di buon occhio gli espropri proletari e la statalizzazione dei mezzi di produzione – si scherza ma neanche troppo; da una parte lui vorrebbe distruggere il Reddito di Cittadinanza, mentre Di Maio ancora le restanti speranze di mantenere la poltrona a bonus e mancette.
Diplomatica la risposta di Carlo dei Parioli: “Se non sono soddisfatti, fatti loro”. Letta non ha ancora replicato, trovandosi nell’improbo compito di far da paciere tra bimbi litigiosi: se non fosse che a giorni dovrà diramare le liste, potremmo ipotizzare che sia andato al mare, staccando il cellulare e rimandando tutto a Settembre. Peccato che non si può.
Il progetto del Campo largo ricorda il metodo che Achille Occhetto utilizzò per perdere col PDS nel 1994: tanti alleati, tantissimi, diversissimi tra loro, senza un programma comune, con l’obiettivo unico di battere l’uomo emergente del centrodestra, Silvio Berlusconi. Tra sogni, speranze e veleni, la “Gioiosa macchina da guerra” prese una cantonata da parte di Alleanza Nazionale, Forza Italia e Lega. Caso vuole che, anche oggi, i contendenti siano gli stessi e le metodologie siano identiche a quelle che già 28 anni fa furono fallimentari.
E così, tra sogni (pochi), speranze (e Speranza) e veleni (troppi), il Campo largo ipotizzato da Letta rischia di avviarsi a diventare Camposanto.