“Verrebbe da consigliare ai dirigenti del Pd -sommessamente, costruttivamente, amichevolmente- di lasciar perdere quel curioso sit in ai cancelli di viale Mazzini con cui ci si propone di protestare per gli eccessi e le forzature di Telemeloni nei giorni del festival di Sanremo. Non perché non vi siano quegli eccessi e quelle forzature. Ma perché un gesto così scontato e rituale, compiuto oltretutto nei giorni più propizi agli ascolti serali, somiglia più a una richiesta di risarcimento che a un’espressione di sana e vera indignazione.
La verità è che la Rai è ostaggio della politica fin dalla notte dei tempi. E chi come il sottoscritto a suo tempo fu designato dal suo partito, la Dc, per fare il consigliere d’amministrazione, non ha propriamente titolo per salire in cattedra e fare la morale. Lasciamo da parte dunque la troppo facile indignazione e cerchiamo piuttosto di capire come se ne possa uscire.
Per lunghi anni viale Mazzini fu guidata, per interposti dirigenti, dai governi dell’epoca. Poi, dal 1975, sul ponte di comando salirono i partiti e il cda venne spartito con precisione millimetrica tra le forze presenti in Parlamento. Vani tentativi di cambiare le regole si mescolarono via via alla conferma delle abitudini di sempre. Fino agli anni più recenti. Anni nei quali la presa delle varie maggioranze, quale che ne fosse il colore, divenne semmai ancora più forte.
Meloni non è stata da meno, e farebbe bene a non vantarsene. Ma onestà vuole che si dica che anche i suoi predecessori di tutti i colori hanno fatto la loro parte in commedia e i loro giri in giostra. Compresi i populisti, nessuno dei quali è stato alieno dalla cattiva abitudine di accaparrarsi qualche posto di comando.
Si dirà che magari qualcuno ha scelto professionisti più indipendenti, o magari più qualificati. Che ci sono state forzature più brusche e altre invece, diciamo così, più delicate. (Da questo punto di vista i tempi più recenti sembrano anche i più inclementi.) Ma forse non è il caso di pesare con il bilancino, oltre che gli incarichi assegnati, anche i commenti e i giudizi di chi si trova oggi, per l’appunto, a commentare e giudicare.
Quello che andrebbe considerato, semmai, è che nel frattempo, in tutti questi anni, il sistema politico nel suo insieme ha perso gran parte del suo consenso e della sua credibilità. E dunque che certe sue interferenze, mai del tutto giustificate, diventano tanto più ingiustificabili ora che i partiti raccolgono così poco apprezzamento perfino tra quanti (sempre meno, a dire il vero) continuano a votarli. Il difetto, insomma, è nel manico. Se la lottizzazione fu una delle colpe della prima repubblica, il suo perpetuarsi nel tempo è diventata un’aggravante. Sottolineata impietosamente dal crollo degli iscritti ai partiti e perfino dalla crescente, drammatica diserzione dei loro elettori dalle urne.
Si consideri inoltre che, via via che passano gli anni, diventa sempre più evidente che i benefici della lottizzazione non sono quasi mai così accurati, né così generosi, come pretende la tradizione. Cosa che era vera perfino qualche anno fa. Quando i democristiani si lamentavano della fiction sulla “Piovra”, che non fece poi un così grande danno alla loro causa. E quando i comunisti celebravano i fasti della terza rete dell’epoca che del tutto involontariamente finì piuttosto per ingrossare il bottino elettorale della destra che cominciava giusto allora a proporsi.
Si tratta allora di cambiare le regole. A partire da quel residuo di “sovietismo” che è la commissione di vigilanza, altro reperto d’epoca che magari sarebbe il caso di rottamare. Il problema che i partiti, tutti i partiti, hanno davanti a sé è -per l’appunto- il cambio delle regole. Mentre il ping pong quotidiano delle polemiche e la convocazione dei sit in di protesta sembrano tutte cose fatte apposta con l’idea che le stesse regole (e abitudini) di prima siano destinate a ripetersi all’infinito. Accompagnate, s’intende, da tutta l’indignazione di circostanza”. (di Marco Follini)
(Adnkronos)