di Leonardo Alfatti Appetiti
Si dibatte da giorni sulla decisione presa dalla casa editrice Penguin di ristampare i libri dello scrittore inglese Roald Dahl cancellando o trasformando frasi o termini considerati offensivi per la sensibilità contemporanea. Non siamo di fronte a una forma dichiarata di censura, ma alla manipolazione arbitraria di un’opera letteraria (quindi un’opera d’arte) che l’autore ha pensato con quei termini e quelle frasi. Il problema, peraltro, non riguarda o potrebbe riguardare solo autori di successo ma anche chi scrive, ad esempio servendosi dei fogli “Google Doc”. Il più grande motore di ricerca, da qualche mese, ha varato una nuova funzionalità per spingere gli utenti ad usare linguaggi politicamente corretti e non discriminatori. Meglio “partner di casa” che il più sconveniente “casalinga”. “Ufficiale di polizia” al posto di “poliziotto”. Forse anche “proprietario” sembrerebbe più indicato per descrivere il “padrone di casa”, almeno secondo Google che, fra qualche tempo, potrebbe scegliere per tutti noi le parole da usare, con buona pace della libertà di scrittura e di pensiero. Siamo di fronte a un’entrata a gamba tesa nel linguaggio di ognuno, “suggerendo” agli utenti di non usare parole particolari, perché – a suo dire – non sarebbero abbastanza inclusive. La cultura della cancellazione, per cui fin dal linguaggio non dovrebbero più esistere le differenze fra maschi e femmine, grassi e magri, alti e bassi, è una forma aggiornata di fondamentalismo moralistico sterile dal punto di vista teorico (perché del tutto utopistico) e molto pericoloso da quello pratico (perché un fine assoluto giustifica ogni mezzo).
La maggioranza delle persone vive sui social network, nativi digitali, ma anche anziani. I social network rappresentano una delle principali fonti di approvvigionamento delle notizie.
Questi sono i dati ufficiali: quattordici milioni e mezzo di italiani utilizzano Facebook per avere notizie: il 30,1% dei 14-80enni, il 41,2% dei laureati, il 33% delle donne.
Non solo: il 12,6% della popolazione acquisisce informazioni su YouTube (e la quota è del 18% tra i giovani) e il 3% su Twitter (5% tra i più giovani).
In genere i social sono utilizzati in combinazione con altre fonti informative ma, dato ancora più interessante, nel nostro Paese ci sono 4 milioni e mezzo di persone che si informano solo sui social network.
A questi dati aggiungeteci che i siti di informazione più autorevoli sono consultabili a pagamento (quindi pressoché evitati) e che molti di quelli non a pagamento si concentrano su gossip e pubblicità mascherata da notizia.
Se prima sui social si poteva comunicare con una certa libertà – a tratti anche eccessiva – da qualche tempo è diventato facilissimo incorrere in censure inspiegabili e anche incomprensibili (nel senso che ci si ritrova con l’account sospeso senza sapere di quale colpa ci si è macchiati). A volte scatta il cartellino rosso perché il logaritmo del social ha scovato una parola inopportuna o ha equivocato un contenuto.
Elon Musk, il bizzarro proprietario di Twitter, per decidere se riammettere o meno l’ex presidente americano Trump sulla “sua” piattaforma, ha lanciato un sondaggio dal suo profilo personale. Un po’ come se l’ordine dei giornalisti rimettesse l’approvazione del proprio codice deontologico al televoto del Grande Fratello Vip, per citare uno dei tanti programmi che fanno uso di questo strumento di “democrazia” telematica.
C’è da dire, nello stesso tempo, che dei social si fa un uso eccessivo: è sufficiente scorrere le bacheche degli utenti di Facebook per misurarne la frenesia comunicativa, su ogni argomento: negli ultimi mesi siamo tutti diventati esperti di geopolitica mentre fino a poco fa eravamo tutti virologi. E attenzione: i giornalisti, che pure dovrebbero dare il buon esempio, sui social spesso danno il peggio di loro stessi. Non tutti, ma molti. Troppi. Forse per recuperare quella facile visibilità che non offre più la carta stampata.