Prima delle fidanzate o dei compagni, a volte prima dell’allenatore; quest’anno nelle interviste post gara e poco prima di salire sul podio va di moda il ringraziamento al mental coach. Una figura fino a poco tempo fa secondaria o inesistente, in alcuni casi addirittura derisa che si era già presa una singolare rivincita nelle Olimpiadi di Tokyo 2020 ed ha avuto una bella conferma con le ultime splendide gare degli azzurri del nuoto. Perché ora, i professionisti dell’allenamento mentale sembrano passati in testa ai pensieri dei loro atleti, in una fase in cui la forza, l’equilibrio, la motivazione, la gestione della volontà e dell’attenzione appaiono aver moltiplicato l’incidenza sul risultato.
Un anno fa avevano aperto le danze Marcell Jacobs e Gianmarco Tamberi, citando i loro angeli custodi. Poi, il tuffo nelle piscine degli Europei appena conclusi, ha portato in auge gli atleti italiani come mai in precedenza con 38 ori, 42 medaglie argento e 38 bronzi ma ha anche sancito un nuovo attore non protagonista, che rimane nell’ombra per impostazione professionale ma non disdegna ogni tanto qualche comparsata in Tv, che fa scena e potenziale fatturato.
D’altra parte, il mondo dei mental coach è un campo tutto in fase di costruzione come professione non ordinistica che comprende figure iper-specializzate ed utilissime al cliente ma anche tanti pseudosantoni improvvisati e formati, per così dire, con un corso in formula week end.
Eppure, una cosa è certa: proprio nello sport il coaching ha mosso i primi passi e precisamente nel tennis quando Timothy Gallwey, educatore ad Harward e tennista esperto, ha scagliato la provocazione per “liberare il potenziale delle persone e massimizzare le prestazioni” con un libro che già nel titolo delineava il campo d’azione. The Inner Game of Tennis, lanciava il guanto di sfida per rimuovere o ridurre gli ostacoli interiori perché “il rivale che si ha dentro la propria testa è più spaventoso di quello che si trova dall’altra parte della rete”. Da lì è partito un percorso affascinante e accidentato fatto di tecniche ma soprattutto di un metodo ed un modo di essere perché è difficile allenare l’atleta senza pensare alla crescita della persona e costruito intorno alle domande capaci di dirigere l’attenzione e muovere la consapevolezza, alle pratiche di visualizzazione ma anche alla gestione della volontà perché, a volte, l’ostacolo può essere una volontà che vuole troppo, un obiettivo che diventa tutto e fa perdere il gesto, il Flow e il piacere di autosuperarsi.
Sempre a metà tra psicologia e filosofia, tra vita e campo, rottura degli stereotipi e un nuovo ed originale modo di vedere sé stessi e gli altri, il mondo del coaching è approdato nelle multinazionali per facilitare il cambiamento, ha provato qualche timido inserimento nella Pubblica amministrazione e nella politica, è stato utilizzato impropriamente per spremere i lavoratori nei call center ma anche per rimettere in moto tanti studenti bloccati e ricostruire un senso del futuro su cui lavorare. Vette e abissi. Come quelle che attirano gli atleti a fatiche immani per pochi minuti di gloria perché, in fondo, non sempre la vita è una gara ma sempre ha a che fare con l’allenamento e con la testa.