Sembra ci sia la mano della ‘ndrangheta sui lavori di Rete ferroviaria italiana. A portarlo alla luce un’inchiesta della procura antimafia di Milano che ha portato all’arresto di 15 persone – 11 in carcere e 4 ai domiciliari – e che vede coinvolti, come si legge nel capo d’imputazione, “gruppi imprenditoriali” che “gestiscono in regime di sostanziale monopolio l’aggiudicazione delle commesse per i lavori di armamento e manutenzione della rete ferroviaria direttamente da R.F.I. spa, a mezzo delle loro società (appaltanti) G.C.F. Costruzioni Generali spa, Gefer srl, Armafer spa, Globalfer spa, Salcef spa, Francesco Ventura Costruzioni Ferroviarie spa, Fersalento srl, Euroferroviaria spa”, finiti al centro delle indagini, condotte dal Gico (Gruppo investigazione criminalità organizzata), riguardano diverse regioni e in prevalenza Lombardia, Veneto, Abruzzo, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia.
Come si può leggere nell’articolo de Il Fatto Quotidiano, secondo i magistrati, gli operai che finivano sui cantieri ferroviari, spesso non avevano “alcuna competenza professionale” e la documentazione che attestava la loro abilitazione era frutto di “falsificazione”. Sono presenti anche accuse sfruttamento del lavoro.
Le società che prendevano gli appalti da Rfi, scrive sempre la Dda, si rapportavano, col sistema del “distacco della manodopera” e “nolo a freddo dei mezzi”, col “gruppo Aloisio-Giardino” al centro dell’inchiesta e “con le numerosissime società a loro riconducibili ma fittiziamente intestate a prestanome”. Per quanto riguarda i Rossi, nel capo d’imputazione, vengono definiti dalla Dda “referenti da oltre vent’anni delle famiglie di ‘mafia’ dei Giardino-Nicoscia prima e ora anche degli Aloisio cui vengono assegnate sistematicamente in regime di subappalto mascherato” i lavori di manutenzione.
Le società riconducibili alla ‘ndrangheta – secondo la Finanza e la pm antimafia Bruna Albertini – si fanno pagare dalle vincitrici degli appalti per il “distacco” dei loro lavoratori in quelle imprese, che intanto iscrivono quei costi e ne traggono benefici fiscali. Coi soldi incassati, invece, le aziende in odor di ‘ndrangheta, stando alla ricostruzione, pagano gli operai che lavorano nei cantieri, ma “in parte” anche “fatture per operazioni inesistenti ricevute da altre società”. Si creano così fondi “restituiti ‘in nero’ alle società” appaltatrici. E ancora “il provento delle attività di fatturazione per operazioni inesistenti viene in parte utilizzato” per il “mantenimento economico dei detenuti e delle loro famiglie” per dare “lavoro ai disoccupati in un’area particolarmente depressa del Paese e così rafforzando il prestigio della cosca”.
Allo stesso tempo, gli operai “vengono fatti lavorare in condizioni di sfruttamento” e “senza poter avanzare alcuna rivendicazione, pena la perdita del posto di lavoro o subire violenze e minacce”. Un’impostazione che in parte la giudice non condivide, perché non basta la sola provenienza geografica, riassume, per indicare una situazione di svantaggio alla base dello sfruttamento. I rapporti tra le società che si aggiudicavano gli appalti e quelle riferibili alle cosche, che prendevano i subappalti, venivano ‘schermati’, secondo l’accusa, attraverso contratti di fornitura di manodopera specializzata, il cosiddetto “distacco di personale” previsto dalla legge Biagi. E ciò per eludere la normativa antimafia e le limitazioni in materia di subappalto previste per le imprese aggiudicatarie di commesse pubbliche.
I lavori di manutenzione della rete ferroviaria finiti al centro delle indagini riguardano diverse regioni e in prevalenza c’è anche dell’Abruzzo insieme a Lombardia, Veneto, Lazio, Campania, Calabria e Sicilia. La Dda aveva chiesto i domiciliari per Maria Antonietta, Pietro e Alessandra Ventura, dell’omonimo gruppo, e il carcere per Alessandro e Edoardo Rossi, ai vertici dell’omonima impresa, ma il giudice per le indagini preliminari Giuseppina Barbara non ha accolto le richieste.
Nell’inchiesta, c’è anche l’intervento della Guardia di finanza che ha provveduto anche al sequestro di 6,5 milioni di euro, ci sono in particolare i gruppi Rossi e Ventura, nonché persone ritenute contigue alla cosca Nicoscia-Arena di Isola di Capo Rizzuto ad iniziare da Maurizio, Alfonso, Antonio e Francesco Aloisio.
Mentre i Ventura, ad avviso degli inquirenti, agivano nella “consapevolezza” di “avere come interlocutori famiglie legate ad un contesto criminale di ‘ndrangheta” e che “avevano subito pregiudizi penali, accettando di sottoscrivere gli accordi contrattuali con società per lo più intestate a prestanomi” e “addirittura istigandone la costituzione di nuove”. I Giardino, si legge negli atti, “solidi ed attuali collegamenti con le storiche famiglie di ‘ndrangheta” di Crotone “alle quali sono ‘legati’ da indissolubili vincoli di parentela ed alle quali assicurano il costante e continuo approvvigionamento dei mezzi di sussistenza soprattutto allorché i loro capi trascorrono in detenzione carceraria”.