Il Consiglio Superiore di Sanità il 4 agosto 2020 ha espresso parere favorevole al ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza con metodo farmacologico fino a 63 giorni (9 settimane compiute di età gestazionale) e nelle strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale ed autorizzate dalla Regione, nonché consultori, oppure day hospital. Questo parere favorevole è contenuto nel provvedimento ministeriale che a metà agosto ha di fatto aggiornato le “Linee di indirizzo sulla interruzione volontaria di gravidanza con mifepristone e prostaglandine (RU 486)”: il documento ministeriale si conclude con una raccomandazione chiarissima ad “effettuare il monitoraggio continuo ed approfondito delle procedure di interruzione volontaria di gravidanza con l’utilizzo di farmaci, avendo riguardo, in particolare, agli effetti collaterali conseguenti all’estensione del periodo in cui è consentito il trattamento in questione”.
A tal proposito con una nota stampa siamo venute al corrente del fatto che, nonostante quanto ricordato poco sopra, anzi – proprio “alla luce delle modifiche dello scorso agosto alla normativa che regolamenta l’accesso al trattamento farmacologico per l’interruzione di gravidanza” – la Regione Abruzzo, attraverso una circolare a duplice firma dell’assessore alla sanità Nicoletta Verì e del Dg della sanità Claudio D’Amario ha fortemente raccomandato alle Asl regionali di fare in modo che l’interruzione farmacologica di gravidanza con utilizzo di mefipristone e prostaglandine si effettui preferibilmente in ambito ospedaliero e non presso i consultori familiari. Questo perché nei consultori familiari della nostra regione “non sempre è presente una figura medica e non c’è una perfetta integrazione con le sedi dipartimentali. Vale a dire che le indicazioni ministeriali potrebbero non essere rispettate”.
A ben guardare ci troviamo di fronte ad una torsione del discorso pubblico intorno al corpo delle donne che temiamo possa avvitarsi pericolosamente su sé stesso.
Dopo l’Umbria e le Marche quindi anche l’Abruzzo a guida centrodestra prova a schierarsi contro il nuovo protocollo del ministero della Salute sull’aborto farmacologico che ha autorizzato la somministrazione della pillola Ru486 pure nei consultori.
Le nuove linee guida sono state salutate da più parti come un passo importante a tutela della salute e dei diritti delle donne, ma dei diritti delle donne la giunta guidata dal Fratelli d’Italia non vuole sentir parlare, anzi – con un fare paternalistico e medicalizzante prova a dire per bocca dell’assessora alla sanità Verì che quello da lei firmato è “un provvedimento a favore delle donne”.
Poco interessano all’assessora e alle destre di questa regione i temi legati all’autodeterminazione femminile, alle politiche di genere e di pari opportunità, alla cura che mettiamo al centro della politica come “qualità dei corpi e delle menti, delle differenti soggettività, del legame sociale e della interdipendenza”.
Poco importa che il tema vero sia quello dell’abbandono a sé stessi di luoghi come i consultori familiari, che da baluardo alla lotta alle marginalità, per le famiglie e la salute delle donne sono diventati contenitori vuoti privi di mezzi e risorse, costretti a ridurre al minimo le attività di prevenzione e accompagnamento della comunità nelle varie fasi della vita e della piena espressione di sé.
Poco importa la considerazione e il rispetto di una legge dello Stato, la 194, che a più di 40 anni dalla sua nascita non riesce ad essere applicata correttamente – basti pensare all’altissimo tasso di obiezione di coscienza da parte di medici e operatori sanitari.
Con la scusa del “benessere della donna” quello che temiamo è il tentativo di forzare la mano, per motivi ideologici e politici, su questioni di etica pubblica, attraverso forme più o meno evidenti di criminalizzazione (ed evidentemente di ‘contenimento sanitario’) dell’aborto come atto di libertà sul proprio corpo e sulla propria biografia, in un panorama in cui sembrano riemergere alcune forme di nostalgia per un passato governato da certezze patriarcali e sovraniste, che incidono ancora una volta sui corpi delle donne.
L’assessora Verì si preoccupi dello stato in cui versano i consultori, nati “per consentire alle donne di godere del diritto fondamentale alla libera scelta della maternità” con la legge n. 405 nel 1975 in cui si incaricava quelle strutture di perseguire vari scopi, tra i quali in particolare: «assistenza psicologica e sociale per la preparazione alla maternità ed alla paternità responsabile»; «la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità liberamente scelte dalla coppia e dal singolo in ordine alla procreazione responsabile nel rispetto delle convinzioni etiche e dell’integrità fisica degli utenti»; «la tutela della salute della donna e del prodotto del concepimento»; «la divulgazione delle informazioni idonee a promuovere ovvero a prevenire la gravidanza consigliando i metodi ed i farmaci adatti a ciascun caso». Presidi di cura, civiltà, cittadinanza attiva, prevenzione, informazione e condivisione che, se magari meglio sostenuti nelle proprie attività, potrebbero portare avanti temi come l’educazione alla sessualità e all’affettività fra le giovani generazioni, l’incentivo all’uso corretto dei metodi di contraccezione e di tutela dalle malattie sessualmente trasmissibili, l’ascolto attivo e partecipato di malesseri emotivi ed esistenziali che oggi più che mai risentono negativamente dell’assenza di luoghi di accoglienza, aperti e inclusivi in cui sentirsi accompagnati nelle varie fasi della vita.
Proviamo in ultimo a ricordare come l’interruzione volontaria di gravidanza (quindi anche quella farmacologica) sia inclusa nei Lea, i livelli essenziali assistenziali, che devono essere garantiti a tutti i cittadini e a tutte le cittadine in tutto il paese, nelle forme in cui le leggi (e quindi anche le nuove Linee Guida istituite dal Ministero della salute) lo consentono.
Ribadiamo con forza che da anni le associazioni per la salute della donna e le società scientifiche chiedono un rilancio della legge 194, chiedendo il rafforzamento della rete dei consultori, da anni sotto finanziati e a corto di personale, ma anche una maggiore centralità sui temi della legge a partire dall’informazione sulla contraccezione, inclusa quella d’emergenza, per migliorare l’informazione, soprattutto per le giovanissime e le cittadine straniere.
Proviamo a parlare di questo, non di confinare il corpo delle donne ad un controllo e confinamento non solo fisico, ma anche esistenziale.