di Piero Carducci, economista
Cinquanta anni orsono, correva la fine dell’anno 1970, partivano con l’elezione dei consigli le regioni italiane. Nessuno si sogna di festeggiare i 50 anni del regionalismo italiano, e non tanto perché nell’era del coronavirus c’è poco da celebrare ma soprattutto perché le regioni appaiono sempre più come un “errore istituzionale” a cui rimediare.
La pandemia ha mostrato i gravi limiti del regionalismo all’amatriciana, di una riforma federale incompiuta, con la frammentazione delle competenze, i conflitti tra poteri concorrenti, la confusione dei ruoli, la lentezza operativa, i guasti di una burocrazia peggiore di quella statale. I presidenti poi, chiamati impropriamente governatori, si sono distinti nel competere con lo Stato centrale, come tanti “signori della guerra” in aperta competizione con l’Imperatore. Ogni regione si comporta come un ducato locale, dimenticando che l’art.5 della Costituzione riconosce certamente le autonomie ma prima ancora dice che la Repubblica è “una e indivisibile”.
Cinquanta anni dopo, nell’emergenza della pandemia, le regioni non si stanno comportando come parte di un organismo unitario, quello che la Costituzione chiama “Repubblica”, ma più come una rissosa confederazione adusa al cinico e sistematico scaricabarile. Il regionalismo in salsa nostrana mostra i segni di una cattiva genesi, di una pessima crescita e di una maturità declinante. La pandemia vince, le regioni perdono, questa è la sensazione diffusa anche tra gli estimatori storici del regionalismo. Il Governo centrale ha molte colpe ma l’emergenza sanitaria ha dimostrato senza ombra di dubbio che il sistema delle competenze “esclusive e concorrenti” non funziona, si inceppa, allunga i processi decisionali, confonde, apre la strada al sistematico “non mi compete”, allarga devastanti conflitti di competenza che fanno la felicità del virus dilagante. La Costituzione, è vero, prevede le Regioni, ma non quelle attuali, il contrario di quanto previsto dal saggio costituente che pensava ad enti vicini ai cittadini, voce dei territori, capaci di interpretare al meglio le necessità della variegata ricchezza municipale italica.
A cinquant’anni di distanza il pasticcio indigesto del regionalismo mancato mostra limiti irrecuperabili: la politicizzazione spinta di questi enti e la loro sostanziale inutilità fa riflettere sulla bontà di una riforma federale che ha creato una Babele costosa, clientelare e labirintica, che pesa sulle tasche dei cittadini ed ha dilatato immensamente una burocrazia pletorica ed intoccabile, senza minimamente rispettare il mantra fasullo della “vicinanza” al cittadino.
La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza i limiti di un sistema che non funziona e mostra limiti strutturali proprio nei momenti in cui tutti dovrebbero lavorare all’unisono per cogliere lo stesso obiettivo: sconfiggere o quantomeno limitare la diffusione del virus. Le regioni hanno l’autonomia nella programmazione e il governo nei LEA (livelli essenziali di assistenza).Entrambi possono decidere, e questo crea una inaccettabile confusione ed un vergognoso scaricabarile.
Nell’emergenza, dice la legge, prevale lo Stato, e questo concetto dovrebbe essere chiaro a presidenti che “giocano” pericolosamente con una comunicazione tanto ambigua quanto aggressiva ed inconcludente. Se il federalismo resta com’è oggi, a metà del guado, e per di più continua a mancare senso della responsabilità, rischiamo tutti di affogare. Si decida una buona volta: modello tedesco (federalismo pieno) o cancellazione degli attuali carrozzoni, modello federale o Stato centrale. Si decida una buona volta, oppure il prossimo virus (e la globalizzazione selvaggia ne produrrà altri) non potrà essere gestito con questo assetto balordo ed indecente.