Oggi, nel 2006, moriva Oriana Fallaci “scrittore” (Oriana Fallaci, scrittore: questo recita il suo epitaffio al Cimitero degli Allori di Firenze), giornalista e grande amante della vita. Le sue parole, spesso pungenti, talvolta scomode, il suo carattere schietto e burbero l’hanno resa un personaggio difficile da raccontare.
Da piccola il suo sogno era fare la scrittrice e così è stato. I suoi libri hanno venduto più di 20milioni di copie in tutto il mondo, le sue interviste ai grandi della storia (Kissinger, Deng Xiapoing, Khomeini, Pier Paolo Pasolini e molti altri) hanno fatto scuola nel giornalismo per l’intimità che riusciva a creare con l’intervistato e per il commento personale che non era mai assente.
Nacque e morì nella sua amata Firenze (29 giugno 1929 – 15 settembre 2006). A 17 anni firmò il suo primo articolo per il Mattino dell’Italia centrale, con i primi soldi si iscrisse alla facoltà di medicina, ma il lavoro sempre più impegnativo (si occupa della nera ovvero la cronaca “delle disgrazie” come la definì lei) la portava a stare lontana da casa per ore e così decise si lasciare medicina. Dalla cronaca nera passò alla cronaca giudiziaria, poi ai fatti di costume, avvicinandosi al mondo della moda e dello spettacolo (in un celebre articolo del 7 dicembre 1948, descrisse le prime sfilate di Dior che ebbero come sfondo una Firenze in lenta e difficoltosa ricostruzione. Il Mattino la licenziò per ragioni politiche, era un quotidiano democristiano e lei era “tutt’altro che democristiana. Ero socialista sebbene non fossi iscritta al partito”. All’età di ventidue anni passò ad “Epoca”, il giornale diretto dallo zio Bruno Fallaci, ma la collaborazione non fu delle migliori, ci rimase fino al ’54 quando decise di lasciare Firenze per Roma e ricominciare. Dopo Epoca arrivò Il Giornale (a Milano) per il quale viaggerà spesso negli Stati Uniti e, grazie anche alle conoscenze dell’epoca romana, creò “Hollywood vista dal buco della serratura”, che diventerà il suo primo libro (1958) con il titolo “I sette peccati di Hollywood”.
Nel 1962 fu pubblicato il suo primo romanzo “Penelope alla guerra” (Rizzoli), scrivere per Oriana rappresentava l’apice della sua carriera, il giornalismo era un modo per “arrivare alla letteratura”, dirà lei stessa (per questo nel suo epitaffio decise di farsi scrivere “Scrittore” e non giornalista). Gli anni 60, 70 e 80 furono raccontati dalla sua penna: la rivolta dei neri a Detroit, l’assassinio di Martin Luther King, la morte di Bob Kennedy e con le sue interviste fa conoscere al mondo intero Ali Bhutto, Haile Selassie, Indira Gandhi, Golda Meir, Reza Pahlavi, Yassir Arafat, Henry Kissinger, re Hussein di Giordania, l’Imam Khomeini, Ariel Sharon, Muammar Gheddafi e Deng Xiaoping e molti altri.
Parlado di Oriana Fallaci, è l’immenso amore per Alekos Panagulis, suo compagno di vita. Una storia breve quanto intensa: interrotta da un attentato che portò via Alekos nel 1976 e che lasciò Fallaci colma di rabbia e tristezza. Lui, poeta e attivista nella sua Grecia, e lei, scrittore e attivista in Italia, vissero anni di lotta politica tra Atene e Firenze, nel ’73 l’amore scoccò dopo l’intervista che Oriana gli dedicò che portò poi al libro “Un Uomo”.
Il 15 settembre del 2006, all’età di settantasette anni, Oriana Fallaci moriva sconfitta da un cancro ai polmoni. Fu sepolta nel cimitero degli Allori di Firenze con una copia del Corriere della Sera, tre rose gialle e un Fiorino d’oro (la più alta onorificenza del Comune di Firenze), ma non il suo, quello di Franco Zeffirelli che lo posò sulla tomba come segno di amicizia e riconoscenza. La città di Firenze non volle mai conferirle tale premio.
Sulla strepitosa vita di Oriana Fallaci da giornalista, la cosa che abbiamo preso come insegnamento è quella che il giornalismo serve alla verità, non ad essere imparziali.
Imparzialità o verità. Una questione di metodo, blandita come vessillo del cronista perfetto.
Non la pensava così Oriana Fallaci, giornalista precoce, inviata di guerra, autrice di romanzi e infine militante devota alla causa di un Occidente assediato e dato in svendita alla cultura islamica come “un panetto di burro infilzato da un coltello”, militante di coraggio esistenziale e politico. Accusata per questo di ‘essere di parte’, non si schermiva dall’accusa, ma la impugnava. “Non mi sento e non mi sentirò mai come un freddo registratore di ciò che vedo e sento. Su ogni esperienza personale lascio brandelli d’anima e partecipo a ciò che vedo o sento come se riguardasse me personalmente e dovessi prendere una posizione”. – Queste le sue parole rilasciate in “Intervista con la storia” in contrasto con un giornalismo che definiremmo più sobrio e anglosassone. Perché la verità non è imparziale: chi la racconta e sbaglia è senza dubbio condannato, ma chi la trova e la scrive salva se stesso e gli altri.
Era questo il giornalismo vissuto quasi con ossessione da questa donna, d’intensi sentimenti e grande forza, quella che serve per sorreggere i rischi di questo mestiere.