MARSICA – Alcune volte non ci rendiamo conto di quanto sia bella la nostra lingua e di quanto siano “veri” i nostri dialetti. Si può usare il termine “Vero”? Forse il contesto non è appropriato ma il mio naso dice che è il sentore giusto. Il 28 dicembre ho assistito ad una conferenza che Enzo Santilli ha tenuto presso la sala conferenze del Teatro San Francesco di Pescina. “Ché l’uso d’i mortali è come fronda”. La meravigliosa avventura della lingua italiana, dalle origini ai nostri giorni. Un viaggio nella storia della lingua italiana, in un giorno freddo d’inverno. L’evento mi ha incuriosito per cui ho chiesto ad Enzo il permesso di approfondire alcune questioni, ed è venuta fuori quest’intervista corposa. Sedetevi comodi e dedicate 15 minuti del vostro tempo per la lettura dell’articolo. Vi assicuro che ne rimarrete sorpresi.
Enzo Santilli, originario di Venere (non il noto pianeta, ma Venere dei Marsi) studia linguistica all’Università di Torino. Si occupa prevalentemente di morfologia, tipologia, dialettologia, lingue in contatto e sociolinguistica. Ha partecipato con la presentazione di relazioni orali o poster a diversi convegni nazionali e internazionali (Vienna 2016, Rjeka 2018, Torino 2019) e ha collaborato come raccoglitore di dati alla realizzazione del corpus di parlato KIParla. È socio della SLI – Società di Linguistica Italiana e nel 2018 è stato uno dei tre vincitori di borsa di studio per l’ammissione all’annuale scuola estiva di glottologia organizzata dalla SIG – Società Italia di Glottologia. Dal 2019 gestisce il blog: fattidilingua.club.
Prima domanda di carattere personale: perché hai scelto di diventare un linguista?
“È una scelta che è maturata col tempo. Inizialmente la linguistica era quanto di più distante potesse esserci dai miei interessi, poi nel corso degli anni ho avuto la fortuna di incontrare maestre e maestri importanti per la mia formazione come accademico e per la mia crescita come individuo. Loro mi hanno insegnato che il linguista ha un dovere etico soprattutto verso gli ultimi, le minoranze, i meno istruiti. Per come vedo io alle cose della vita, non potevo sperare di avvicinarmi a disciplina più interessante.”
Qual è il compito di un linguista?
“Il linguista si occupa a tutto tondo di come funziona quella facoltà umana che è il linguaggio, e si occupa di capire come questa facoltà si manifesta nelle diverse espressioni sociali e culturali che chiamiamo lingue. Quindi linguista non è chi parla tante lingue o chi ti dice cosa è giusto e cosa sbagliato. Per dirla con una battuta, linguista sa di non conoscere nessuna lingua, ma sa scientificamente spiegarti il perché.”
Che differenza c’è fra lingua e dialetto?
“È una domanda a cui dare una risposta che non scontenti nessuno risulta molto, molto difficile. Per seguire un sentiero sicuro e ben battuto, diremo che la differenza fra lingua e dialetto può essere osservata da due punti di vista, quello della linguistica interna e quello della linguistica esterna. Per linguistica interna si intendono quegli elementi che compongono la struttura di qualsiasi lingua. Da questo punto di vista, non c’è differenza alcuna fra una lingua e un dialetto. L’inglese presenta una fonologia, una morfologia, una sintassi e un lessico propri tali da identificarla come lingua a sé e lo stesso vale per i dialetti della Marsica. Sia inglese che pescinese sono lingue; o meglio, codici linguistici con pari dignità. La prospettiva dalla quale possiamo cogliere una sostanziale differenza fra una lingua e un dialetto è invece quella della linguistica esterna, ovvero quei fatti che riguardano la lingua al di fuori della sua struttura, calata cioè nel contesto sociale. Da questo punto di vista un dialetto è «un sistema linguistico subordinato a una lingua standard con la quale è strettamente imparentato, e in confronto alla quale ha una diffusione areale più limitata» (Berruto & Cerruti 2015). I dialetti, inoltre, «coprono gli usi ‘bassi’, propri di situazioni socialmente non impegnative» (ibid.). Per i dialetti della Marsica è esattamente così. Sono imparentati con una lingua standard che è l’italiano, hanno diffusione areale limitata (sono parlati, cioè, solo a Pescina, Celano, Avezzano, ecc.), e coprono gli usi bassi nel senso che siamo abituati a utilizzarli al mercato o con gli amici, non a scuola o in tribunale.”
Perché il dialetto viene visto come lingua “bassa”?
“Perché lo è. Ma attenzione se per “bassa” intendiamo una lingua brutta, rozza, sporca e ignorante, siamo fuori strada, probabilmente ingannati dal fatto che il dialetto è usato soprattutto nei contesti meno formali. Tecnicamente il dialetto è una lingua bassa proprio perché è la lingua dei contesti informali. Immaginiamo di parlare con un nonno o un caro amico in italiano aulico;ci suonerebbe strano, giustamente. L’italiano, per quanto spesso penetri anche nelle situazioni familiari, gioca su un altro campo – per così dire. È il campo delle situazioni che richiedono un certo grado di formalità, definite “alte”. Viceversa, il dialetto vive e prospera in quelle informali e familiari, che chiamiamo “basse”, ma senza intenzione di insulto. Spesso proprio un dialetto, una varietà locale o un volgare riesce a diventare lingua nazionale o ufficiale, guadagnando sempre più terreno nei domini formali. Questo avviene ad esempio quando un determinato gruppo sociale accresce il proprio prestigio culturale, economico, politico e militare, fino ad imporre la propria lingua su un territorio sempre più ampio. Da qui la famosa massima di Max Weinreich secondo cui «una lingua è una dialetto con un esercito e una marina» o, per dirla ancora con Berruto (1995:225), «una lingua è un dialetto che ha fatto carriera».
Come classifichiamo, da un punto di vista tecnico, i dialetti della Marsica?
“La situazione dialettale italiana è ricchissima ed estremamente varia. Per alcuni dialetti, è semplicemente poco studiata. Non a caso, il linguista Manlio Cortelazzo (1988) ci diceva che «il fine ultimo di ogni classificazione dialettale non è quello di fissare un quadro capace di rispondere ad ogni esigenza teoretica, ma piuttosto una rete di macchie distinguibili in una policroma, ma non confusa, carta d’Italia». Una volta accettati questi limiti, nulla ci impedisce di procedere a una classificazione, sicuramente parziale e perfezionabile. Per farla, prenderemo come punto di riferimento la celebre Carta dei Dialetti D’Italia di Giovan Battista Pellegrini (1977). Per le loro caratteristiche strutturali, i dialetti marsicani appartengono a due macro-gruppi, il mediano e il meridionale intermedio che complessivamente si estendono dalle Marche fino alla Lucania, la Calabria settentrionale e il tarantino. Appartengono al gruppo mediano i dialetti dell’area di Carsoli, Capistrello, Scurcola Marsicana, Tagliacozzo, Magliano, fino alla periferia ovest di Avezzano. Fanno invece parte del meridionale intermedio le parlate della Marsica fucense, della Valle del Giovenco e dell’altipiano delle Rocche.”
Fenomeni comuni a questi dialetti sono:
• L’apocope(ovvero la caduta) di parti delle desinenze verbali all’infinito:
o Esempi: italiano cantare ma dialetto canda’, ital. correre ma dial. corre, ital. soffrire ma dial. suffri’
• La metatesi (una specie di spostamento) di r:
o Esempi: ital. capra ma dial. crapa, ital. pietra ma dial. preta
• L’assimilazione dei nessi -nd->-nn- e -mb->-mm-:
o Esempi: ital. mondo ma dial. munne, ital. combattere ma dial. cummatte
• La sonorizzazione delle consonanti occlusive sorde p, t, k dopo suono nasale:
o Esempi: ital. campo ma dial. cambo, ital. montone ma dial. mondone, ital. anche ma dial. anghe
Quist, quiss, quijj – Un fenomeno che rende i dialetti marsicani e abruzzesi abbastanza unici è la presenza di un sistema tripartito di deittici spaziali, ovvero una distinzione abbastanza naturale fra questo, codesto e quello, che dalle nostre parti suonano – con qualche variante fonica – come quist, quiss, quijj. Immaginiamo di essere a tavola. A seconda di dove è posta una forchetta (ovvero, più o meno vicino a chi parla e a chi ascolta) diremo con assoluta naturalezza: per favore, prendi/passami questa/quessa/quella forchetta.
Qual è il dovere del linguista rispetto al dialetto? Cosa dice la costituzione o la legge sui dialetti/minoranze linguistiche e come le tutela?
“Qualsiasi fatto, una volta analizzato col metodo scientifico, viene portato all’attenzione della comunità accademica e quindi può essere oggetto di dibattito e tutela. Per il semplice fatto che li studiano, linguisti e dialettologi tutelano i dialetti. Il vero problema sono le risorse economiche necessarie affinché tale tutela trovi applicazione, che spesso mancano. In Italia uno dei 12 principi fondamentali della Costituzione, il sesto, si impegna proprio a tutelare le minoranze linguistiche. La legge in cui questo articolo trova applicazione è la 482/’99, che però presenta non poche ombre, come il fatto di non prevedere tutela per le lingue di minoranza parlate all’interno di zone a loro volta di minoranza, ma tutelate. Un caso abbastanza emblematico è quello della comunità tabarchina di Sardegna.”
Quanto hanno influito personaggi di “culto” televisivo sulla diffusione del dialetto?
“Il dialetto è sempre stato utilizzato nelle produzioni cinematografiche italiane, ma nel corso del tempo ha avuto considerazione e fortuna diversa. Durante il periodo neorealista, in capolavori quali “Roma città aperta”, “Ladri di biciclette”, “La Grande Guerra” e “I soliti ignoti” il dialetto fungeva da strumento espressivo e allo stesso tempo da collante fra arte e popolo anche grazie alle magistrali interpretazioni di attori come Gassman, Sordi e Totò. Successivamente ha finito per perdere un po’ sua forza di valore aggiunto, e lo si è riciclato come strumento comico, come nelle fortunate macchiette di Cochi e Renato, Lino Banfi, Diego Abatantuono. Il dialetto è stato lentamente ricollocato in quella posizione subalterna di “lingua degli stolti” che ancora oggi è dura a morire. La letteratura sembra invece aver scansato questa deriva, come si può leggere facilmente nelle opere di Camilleri, Brera, Gadda, Fenoglio, Pavese e Pasolini. Oggi ci si muove fra due poli. Da un lato le serie di carattere generalista, che prediligono una lingua di plastica, quella specie di italianese da fiction che nessuno userebbe nella vita reale. Dall’altro, molti ottimi prodotti devono la loro fortuna anche a un sapiente utilizzo del dialetto, vedi lo stesso Montalbano, Romanzo Criminale, Gomorra, nonché il recentissimo “L’amica geniale” che viene addirittura trasmessa con i sottotitoli. Questo è un bene per la vitalità dei dialetti, fintantoché non si confondano il concetto di ricchezza – che è quello che dovrebbe caratterizzare ogni dialetto – con quello di folklore, che rischia di fare più male che bene.”
Grazie mille per questa intervista Enzo!
“Permettimi di ringraziare il professor Riccardo Regis dell’Università di Torino, i cui suggerimenti sono stati fondamentali per rendere le mie risposte più complete e precise. Chiaramente, qualsiasi mancanza, errore o inesattezza sono da imputare esclusivamente a me.Grazie anche a te, Tamara, per avermi concesso questo spazio e per essere stata tanto paziente.“