Anna, Giulia, Katty, Asmina, Nathalie, Emily, Aisha, Acelya ….qualsiasi sia il tuo nome donna, questa giornata in fondo ti è dedicata, iniziativa per dire basta alla violenza su di te. Non è una festa, questa giornata non dovrebbe nemmeno esistere.
Non dovrebbe esistere la parola femminicidio, non dovrebbe esistere che tu venga considerato un oggetto, una proprietà. Non dovrebbe esistere che ti venga impedito di decidere, decidere di essere libera, di porre la parola fine a quel rapporto che ti logora. Decidere di dire basta a quell’uomo che si accanisce sul tuo corpo con calci, pugni fino a ucciderti. Non dovrebbe esistere che l’impotenza mentale, la nullità di quei maschi incapaci di conquistare con dolcezza e amore il tuo cuore, ti afferri trascinandoti, sequestrandoti, violentandoti. Non dovrebbe esistere, ancor oggi, il tuo essere considerato un valore relativo nell’ambito del lavoro, sottomettendoti con lo scambio del tuo corpo per ottenere quel che è il tuo diritto.
Quante panchine, quante scarpe rosse oggi. Persino il codice della tua denuncia è rosso, lì sul tavolo tra le tante senza il bollino.
Panchine, un simbolo, ma le parole sono lontane dai fatti. Il maschio represso, su quella panchina si siede ridendo.
Ricorda donna è nelle tue mani la tua vita. Chi ti ama non ti picchia, non ti offende, non ti sottomette, non ti violenta. Chi ti ama ha fiducia in te, non controlla ogni istante del tuo quotidiano. Non aumentare il numero di quelle 92 che, dall’inizio dell’anno ad oggi, non hanno avuto il coraggio di scappare, fuggire dalla paura, dal dolore. Non credere alle parole di pentimento false e infide: perdonami, non lo farò mai più!
A te, a noi donne, la consapevolezza che la violenza è un amore senza amore.
Il canto delle donne (Ada Merini)
Io canto le donne prevaricate dai bruti
la loro sana bellezza, la loro “non follia”
il canto di Giulia io canto riversa su un letto
la cantilena dei salmi, delle anime “mangiate”
il canto di Giulia aperto portava anime pesanti
la folgore di un codice umano disapprovato da Dio,
Canto quei pugni orrendi dati sui bianchi cristalli
il livido delle cosce, pugni in età adolescente
la pudicizia del grembo nudato per bramosia,
Canto la stalla ignuda entro cui è nato il “delitto”
la sfera di cristallo per una bocca “magata”.
Canto il seno di Bianca ormai reso vizzo dall’uomo
canto le sue gambe esigue divaricate sul letto
simile ad un corpo d’uomo era il suo corpo salino
ma gravido d’amore come in qualsiasi donna.
Canto Vita Bello che veniva aggredita dai bruti
buttata su un letticciolo, battuta con ferri pesanti
e tempeste d’insulti, io canto la sua non stagione
di donna vissuta all’ombra di questo grande sinistro
la sua patita misura, il caldo del suo grembo schiuso
canto la sua deflorazione su un letto di psichiatra,
canto il giovane imberbe che mi voleva salvare.
Canto i pungoli rostri di quegli spettrali infermieri
dove la mano dell’uomo fatta villosa e canina
sfiorava impunita le gote di delicate fanciulle
e le velate grazie toccate da mani villane.
Canto l’assurda violenza dell’ospedale del mare
dove la psichiatria giaceva in ceppi battuti
di tribunali di sogno, di tribunali sospetti.
Canto il sinistro ordine che ci imbrigliava la lingua
e un faro di marina che non conduceva al porto.
Canto il letto aderente che aveva lenzuola di garza
e il simbolo-dottore perennemente offeso
e il naso camuso e violento degli infermieri bastardi.
Canto la malagrazia del vento traverso una sbarra
canto la mia dimensione di donna strappata al suo unico amore
che impazzisce su un letto di verde fogliame di ortiche
canto la soluzione del tutto traverso un’unica strada
io canto il miserere di una straziante avventura
dove la mano scudiscio cercava gli inguini dolci.
Io canto l’impudicizia di quegli uomini rotti
alla lussuria del vento che violentava le donne.
Io canto i mille coltelli sul grembo di Vita Bello
calati da oscuri tendoni alla mercé di Caino
e canto il mio dolore d’esser fuggita al dolore
per la menzogna di vita
per via della poesia.