AVEZZANO – Gli eredi di una donna di Avezzano dovranno essere risarciti per una epatite C contratta a causa di una trasfusione con sangue non controllato a dovere.
Il Ministero della Salute, infatti, è stato condannato dalla Corte d’Appello di Roma a risarcire 800.000 euro agli eredi di V.A., di Avezzano, morta nel lontano 2008, dopo anni di sofferenze e diverse trasfusioni. La vicenda ebbe origine nei primi anni 90, quando la donna fu coinvolta in un drammatico incidente stradale dove subì pesantissimi danni fisici, con il conseguente ricovero in diversi ospedali e una lunga serie di trasfusioni di sangue.
Complessivamente furono decine le trasfusioni di sangue in tre ospedali: due in Abruzzo (L’Aquila e Teramo), uno nella regione Marche (Ancona). L’odissea della donna, già segnata da quel tragico incidente stradale, non era finita. Il destino, o forse più appropriato sarebbe dire qualche imperdonabile leggerezza nel sistema dei controlli del sangue raccolto, gli riservò la mazzata letale, venuta alla luce nel 2005. La donna avezzanese, infatti, aveva contratto l’epatite C, causata dalla trasfusione di sangue infetto. Tre anni dopo, al termine di un altro calvario, V.A, morì.
Nel 2010, quindi, i figli della vittima di questo terribile caso di malasanità, assistiti dall’avvocato Cristian Carpineta, decisero di fare una una causa di risarcimento danni conseguenti alla morte della loro madre causata da trasfusione infetta. Attraverso lo studio delle diverse cartelle cliniche, il legale, coadiuvato dal Ctp Giuseppe Stornelli, ricostruì la vicenda sanitaria, compresa la storia delle decine e decine di trasfusioni in quei tre ospedali. Dalle carte emerse però il grande dilemma: non avendo certezza su quale ospedale, e quindi, quale Asl chiamare a rispondere della trasfusione infetta, Carpineta optò per richiedere tutti i danni al Ministero della Salute, in quanto soggetto responsabile.
In prima istanza, nel 2014, la causa venne respinta dai giudici del Tribunale Civile di Roma, poiché secondo il Giudice di prime cure, negli anni ’90 il Ministero della Salute aveva ormai adempiuto ad ogni obbligo di legge delegando ogni incombente in materia alle allora Ulss (istituite nel 1978). Per i giudici la storia delle trasfusioni infette scoperte dal consulente di parte, il medico legale, Giuseppe Stornelli, due, che sarebbero state effettuate all’ospedale di Ancona, era da addebitare alle strutture ospedaliere e non anche al Ministero. La sconfitta in prima battuta, però, non fece desistere i familiari dall’azione contro il Ministero.
La prima sentenza fu impugnata dal legale in Corte D’Appello. Qui, i giudici, dopo la fase dibattimentale, hanno ribaltato la sentenza di primo grado del Tribunale di Roma, addebitando al Ministero della Salute, al di là delle deleghe conferite nel tempo alle Ulss, nel mentre divenute Asl, la colpa del contagio da trasfusione infetta, con conseguente morte della donna. Il Ministero della Salute, infatti, è stato ritenuto soggetto apicale circa la programmazione, il controllo e l’approvvigionamento del sangue.
I giudici capitolini, in sede di conclusioni, hanno disposto l’immediata discussione orale della causa e, dopo alcune ore di camera di consiglio, con sentenza resa a margine del verbale d’udienza, hanno accolto la richiesta di risarcimento danni dei familiari di A.V. assistiti dall’avvocato Cristian Carpineta, quantificati in ottocentomila euro.
Si può dire, in conclusione, che la tenacia e la caparbietà mostrate dai soggetti coinvolti, e vittime anche loro, in questa tristissima storia, hanno avuto la meglio di fronte a quella che si sarebbe, diversamente profilata come una vera e propria Ingiustizia di Stato.