di Roberta Placida
AVEZZANO – Era nato il 18 febbraio 1940, Fabrizio De Andrè avrebbe compiuto ora 78 anni. È andato via troppo presto e tutti noi siamo rimasti orfani: della sua poesia, della sua voce, della sua capacità di immergersi “tra il vomito dei respinti” per tirarne fuori una goccia di splendore. È, quella di Faber, una poetica della compassione e, nello stesso tempo, uno sguardo lucido e critico su una morale borghese e bigotta di cui destruttura e dissacra i principi, mostrandone le contraddizioni e le ipocrisie. I personaggi che popolano le canzoni di Fabrizio sono gli ultimi incontrati nei “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, nei carruggi di Genova, tra le pagine di cronaca nera, sulla via della croce e sul Golgota e tutti, nella alchimia della parola potente e mai scontata, acquistano una nuova vita e una nuova dignità, fino a diventare fiori che nascono dal letame.
È una autentica passione per gli ultimi che porta il cantautore quasi a identificarsi con loro, fino a riconoscere a se stesso “il marchio speciale di speciale disperazione”.
Il suo viaggio in direzione ostinata e contraria è stato ben messo in evidenza da Luca Facchini, il regista de “Il principe libero”, il biopic sul cantautore genovese andato in onda su Rai 1 il 13 e il 14 febbraio scorsi.
Probabilmente chi si aspettava un viaggio nelle canzoni è rimasto deluso, ma a torto, perché, a parere di chi scrive, il film vuole essere un viaggio nell’uomo Faber, nelle contraddizioni del suo animo tormentato dalla bruciante passione per i respinti e dall’ansia ossessiva, quasi una angoscia pressante, di non riuscire a dire, di non saper dire e, peggio, di non aver nulla da dire. Non è facile riassumere in poco meno di tre ore un personaggio che mai ha accettato inquadramenti di sorta, che è sempre fuggito da qualsivoglia schematizzazione e che anche nelle sue canzoni non è stato mai ripetitivo, mai uguale sia nei soggetti scelti – narra Gesù di Nazareth e, nell’album successivo, un bombarolo -, sia nello stile musicale. La scelta di Facchini è caduta sul Faber dei rapporti umani: dal rapporto con il padre, conflittuale ma sempre caratterizzato da un amore autentico e da reciproca stima, al rapporto con la prima moglie Puni a cui resta legato da un profondo affetto, a quello con Dori che ha saputo amarlo senza volerlo cambiare, a quello, infine, con i rapitori (gli esecutori materiali del sequestro, non i mandanti) che, in coerenza con quanto da lui sempre cantato, ha perdonato e per i quali ha chiesto clemenza alla legge: non gigli, sicuramente, ma vittime, come lui, della avidità umana e della crudeltà del mondo.
Magistrale nel ruolo di Fabrizio Luca Marinelli che ha saputo fuggire la tentazione di una imitazione pedissequa, avvicinandosi al “gigante” con umiltà e dando una prova interpretativa convincente e coinvolgente.
Geniale la chiusa del film in cui la rottura della finzione narrativa – tutto il cast prende posto al teatro e si apre il sipario su Fabrizio che canta Boccadirosa durante l’ultimo tour del 1998- segna il discrimine tra il Faber interpretato e il Fabrizio reale, quasi a dire “abbiamo fatto tutto quello che potevamo, ma lui è troppo grande e non ci resta che guardarlo e ammirarlo in silenzio”. Un omaggio a tutto tondo, quindi, da cui esce il ritratto anche di un uomo grande in sregolatezza e con molte debolezze, ma Fabrizio, per sua stessa ammissione, non ha mai avuto l’ansia di perfezione, era semplicemente un figlio dell’uomo, fratello di tutti e non voleva essere il depositario di una qualsivoglia verità: a lui bastava regalare qualche emozione.